Capita di trovarsi davanti a stralci di libri capaci di reggere la nostra intera misera esistenza. Così come possono arrivare anche a stravolgere ogni assetto concettuale preconfezionato dalla società in cui ci si ritrova a vivere.

Probabilmente uno di questi scritti, nonostante sia riuscito a sprofondare il genio del lettore nei più profondi abissi di un vorticoso stato di interdizione, lässt sich nicht lesen, non si lascia leggere, conserva segreti che non permettono di essere svelati. Può darsi che tutto ciò lo si trovi proprio in uno dei racconti di Edgar Allan Poe, L’uomo della folla. La vicenda di un voyeur annoiato che non riesce a fare a meno di inseguire un indecifrabile vecchietto che cerca sempre di stare in mezzo alla gente. Ed ecco come pochi righi diano inizio ad una moda, ad una tendenza letteraria che segue anche un indirizzo ideologico.

Dall’asfalto delle strade iniziano a sbocciare figure, la cui natura metalettica fa sì che la finzione narrata sia traslata nella realtà vissuta per un groviglio di concause inestricabili, che neppur l’ingegner Gadda troverebbe sensato sbrogliare. Il flâneur è un blasé, un passeggiatore seriale per noia, un tediato divoratore di cunicoli, un osservatore incomprensibile che scruta misteri impenetrabili attraverso il gesto impulsivo di un gomito che si alza per mandar giù uno shot, è l’edera che cresce spontaneamente tra giunti di muretti inviolabili, è il genio tipico del delitto profondo.

Perciò, qualora siate convinti che un racconto finisca con un punto fisso, dovreste cambiare opinione quantomeno per rispetto ad una categoria illimitata di scrittori e poeti che hanno tracciato un solco in un percorso senza una direzione specifica, ma atto a soddisfare il desiderio insaziabile di promenades senza meta, in questo caos [dove] svanisce ogni ordine e comincia ad alitare intorno qualcosa di voluttuoso e insieme malinconico,  come un dio taciturno ed eccelso, per citare Walser.

Álvares de Azevedo è uno di quelli che non si lasciano leggere, tanto che non sapremo mai come sarebbe stata la sua vita dopo i vent’anni d’età, è uno che a metà Ottocento aveva molto da dire ma da cui la natura stessa non voleva essere esaminata. Ricorda molto Poe, pur scrivendo in portoghese, non solo perché la sua unica opera in prosa, Noite na Taverna, è una raccolta di racconti grotteschi, seppur ispirati da Cadalso, ma anche perché nelle sue poesie si percepisce la volontà di mettere da parte, durante la composizione, il conflitto esiziale col suo demone meschino (Sologub). Sebbene, però, devoto all’amore più verdeggiante, più fanciullesco, nella raccolta Lira dos vinte anos, cerchi di forgiare la sua immagine sul biancore candido della donna – Che per un bacio perduto/di godimento potrei morire/sui tuoi bianchi seni di neve?/Che in un oceano d’un gemito la mia alma affogherebbe? – finisce per rendersi conto che il suo destino da angustiato botanico dell’asfalto è giunto al termine – Addio, miei sogni, piango e muoio!/Non porto dell’esistenza una nostalgia!/E tanta vita che riempiva il mio petto/Morì nella mia triste gioventù!/Miserrimo! Dedicai i miei poveri giorni/Al destino stupido di un amore senza frutto,/E la mia anima nell’oscurità ancora dorme/Come uno sguardo che la morte nasconde nel lutto./Cosa mi resta, Dio mio? Muoia con me/La stella dei miei candidi amori,/Non vedo più nel mio petto morto/Nemmeno un pugno di secchi fiori!

Un altro poeta che ha cercato di contrastare quell’inerzia profonda che assorbe ogni forza vitale muovendosi tra putride immondizie stagnanti porta il nome di Maurice Rollinat. Un nevrotico dandy che osserva la natura scomporsi in simboli in un vagabondaggio di sogni paurosi  (Serao). Non ha la folle lucidità matematica di Poe né quella sdegnosa brevità di Baudelaire, ma la sua è una stancante danza macabra di ossa immerse nell’acido fenico – Corpo sensibile/se vivente…/ingannevole da invisibile,/puro fantasma /di carta,/ad occhio nudo/quasi un atomo,/l’acaro/ va, viene, cerca,/discende, si stabilizza/sicuro e spedito (Les Bêtes).

Un acciaccato tifoso della vita, uno di quelli che la osservano con un binocolo sugli spalti giallogni di qualche plumbea fortificazione, su un funereo glacis di qualche edificio brutalista sovietico, questo è il romeno George Bacovia. Si definiva un poeta della decadenza tanto che le sue parole corrosive le si potevano scorgere mentre barcollavano di notte nel retro di qualche mattatoio o in un parco spettrale, certo non in un liceo, e a deridere le trappole per topi scansate con qualche compagno di giochi – nel lugubre clima ridevano a scroscio sarcastici/Anche Poe, Baudelaire e Rollinat – e poi – Liceo, cimitero/della mia giovinezza/ professori pedanti/ed esami pesanti – senza, però, mai dimenticare che quel fruitore di realtà urbane dallo sguardo analitico alla Benjamin non avrebbe mai potuto permettersi di sprecare un’intera vita su un canapè – Un aforisma/ celebre/ ti fa/ vivere… /non c’è domani/ né oggi/ né ieri,/ il tempo…
C’è ancora qualcuno che non si lascia leggere a questo mondo. Dobbiamo essere grati a Dio che er lässt sich nicht lesen. Probabilmente un solitario dal riso amaro e che ha sempre pianto, col suo aspetto destinato a morire perché a tutti sospetto.


Stefano Ricchitelli

Nato a Carbonara (BA), diplomato al liceo classico di Molfetta, laureando in lettere classiche, ha pubblicato sulla rivista Poetarum Silva.